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Un mio pezzo uscito sabato 2 dicembre sul Corriere Fiorentino

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C’ è un film del 1989, L’attimo fuggente, che da quasi trent’anni viene preso a modello da chi è convinto che l’obiettivo principale della scuola sia quello di portare gli studenti a trovare la propria strada nella vita. Un punto di vista più che condivisibile, che però ha generato vari equivoci tra alunni, genitori, professori. E perfino tra ministri dell’Istruzione. Il riferimento alla storia del professor Keating (interpretato da Robin Williams) non è casuale, perché proprio nella scena finale — quella con gli studenti che si alzano in piedi sui banchi in un gesto di solidarietà e ribellione contro l’allontanamento del loro «capitano» — sono condensati elementi tanto suggestivi quanto fuorvianti se non contestualizzati.
L’impressione, infatti, è che sia stato dato peso (eccessivo) al gesto e non al percorso che lo genera. È passato cioè il messaggio che per seguire il proprio talento basta dire «no» alle cose che in quel momento lo ostacolano e che quindi sembrano ingiuste. Sia chiaro, i mali della scuola italiana — fotografati anche dal sondaggio commissionato dal «Gruppo di Firenze» — non dipendono da quel film.
Piuttosto il personaggio del professor Keating ha fatto da paravento a un’ideologia intrisa di ’68 e catto-comunismo che, negli anni, ha scambiato — a cominciare dal livello politico — l’inclusione con l’appiattimento, la democrazia con l’annullamento della diversità, i diritti con il merito.
«Dei due sentieri scelsi il meno battuto per non scoprire in punto di morte che non ero vissuto», dice l’insegnante di letteratura ai ragazzi del collegio Welton. Ma per arrivare a quella scelta bisogna durare fatica. A partire dai banchi di scuola: non si può scegliere senza conoscere e non si conosce senza lo studio. Rigoroso e continuo. Andare incontro allo «sconosciuto» — che è la chiave stessa della ricerca, in ogni ambito del sapere — non significa fare salti nel buio, essere ciechi di fronte alla realtà. Significa invece vedere (e far vedere) un percorso e non le scorciatoie, accettare (e far accettare) le frustrazioni come momento di crescita e non come penalizzazione.
Nella scuola di oggi, invece, si tende a livellare e non a valorizzare. E spesso il risultato è una sperimentazione didattico-culturale fine a se stessa, senza un progetto integrato che coinvolga famiglie, istituzioni, esigenze territoriali. Perché è vero che bisogna portare i giovani a scoprire la loro strada, ma per farlo qualcuno gli dovrà pur dare gli strumenti per affrontare nel migliore dei modi opportunità e ostacoli sempre nuovi.
«Medicina, legge, economia, ingegneria sono nobili professioni, necessarie al nostro sostentamento; ma la poesia, la bellezza, il romanticismo, l’amore, sono queste le cose che ci tengono in vita», dice ancora il professor Keating. In una società iper complessa come quella in cui viviamo invece la sfida è tenere insieme, fondere, la cultura scientifica con quella umanistica; il fattore umano con quello tecnologico; il naturale con l’artificiale.

Antonio Montanaro

Una mia articolessa uscita oggi sul Corriere Fiorentino

Dal palco della Leopolda Matteo Renzi ha lanciato la volata per le elezioni di primavera. Servizio civile per ragazzi e ragazze, bonus per le famiglie con figli ma anche una dura battaglia contro le fake news. Allo studio c’è una proposta di legge firmata dal capogruppo al Senato Luigi Zanda, ma nell’immediato il Pd “presenterà un rapporto sulle schifezze in Rete ogni 15 giorni “. Detta così può sembrare più una sorta di reazione alla minaccia dei Cinquestelle (nati e cresciuti proprio grazie al tam tam più o meno pilotato del web) che la maturazione di un percorso culturale, prima ancora che politico. Dopo quello che è successo con la Brexit e con l’elezione di Trump, dunque, anche alcuni partiti italiani (Lega e M5S in questo momento fanno spallucce) cominciano a interrogarsi su come le (false) informazioni veicolate dai social network possano influenzare il voto.

Ne ha scritto l’altro giorno il New York Times parlando, in un articolo che ha già messo una contro l’altra le forze politiche, di rischi reali. Paolo Pagliaro in un saggio pubblicato nel marzo scorso (“Punto, fermiamo il declino dell’informazione”) scrive: “Grazie al termine post verità si è finalmente affermata una verità che era da tempo sotto gli occhi di tutti, e cioè che oggi contano più le emozioni che i fatti oggettivi. Più le suggestioni che i pensieri. Più la propaganda che l’informazione. E dunque più le bugie che il racconto veritiero dei fatti”.

Una questione che è come sale sulle ferite per il mondo del giornalismo e, soprattutto, per quello della politica. Può diventare controllore chi ha interesse a far circolare notizie false? Può avere un ruolo chi ha abbandonato, come ha sottolineato il linguista Giuseppe Antonelli, il “paradigma della superiorità” per abbracciare quello del “rispecchiamento” con l’elettorato, abbassando così contenuti e linguaggi del discorso pubblico? Può essere lo smascheratore del falso Renzi che ha basato la sua ascesa nazionale sulla suggestione (storytelling) della “rottamazione” o Berlusconi che sulla favoletta della nipote di Mubarak ha costruito la sua strategia difensiva in Parlamento in uno dei momenti più bui della storia italiana o Di Maio che soffia sul vento dei fotomontaggi per una manciata di voti in più?

Più che a cercare di controllare le informazioni con le leggi la politica dovrebbe individuare strategie per mettere un freno ai “signori delle bufale”, a chi cioè si arricchisce (prima di tutto economicamente e quindi acquisendo potere) con i siti internet che veicolano “schifezze” ad arte. È quello che ha chiesto il ministro dell’Interno Marco Minniti: “Una grande alleanza tra governi e provider contro il malware del terrore e della falsità”. È complicato, si sa: ci sono tanti interessi in gioco. Ma ci si può provare. Anche perché alcuni Paesi hanno tutto l’interesse a non affrontare seriamente il problema, come dimostra l’inchiesta sulle “ingerenze” russe nelle elezioni presidenziali Usa.

Secondo Walter Quattrociocchi, tra gli studiosi più attenti del fenomeno, la battaglia contro le fake news “non è percorribile legislativamente”. “Anche scientificamente – ha spiegato al sito Lettera 43 – la nozione di verità è labile. Al momento non siamo neanche in grado di stabilire se i social siano produttori o solo veicoli di fake news”. Dunque, l’unica risposta possibile è legata a un profondo cambiamento culturale, soprattutto nel rapporto con l’informazione (quella mainstream e quella che circola in Rete). Per individuare le fake news e difendersi ogni cittadino dovrebbe possedere le abilità tipiche del giornalista: andare, per esempio, a verificare l’origine di una notizia, cercare più fonti per avere le conferme necessarie, distinguere tra le fonti. È possibile?

Bruno Mastroianni nel libro “La disputa felice” fa notare come l’informazione sia “oramai il nostro ambiente virale abituale. Non abbiamo alcuna possibilità di essere preservati, abbiamo invece bisogno di strumenti culturali adeguati per imparare a vivere in modo proficuo”. Muoversi – e bene – nel “sovraccarico informativo”: è questa la sfida che investe noi, ma anche le scuole e le università. Che non possono evitare di confrontarsi fino in fondo con nuovi linguaggi e nuove tecnologie, già a pieno titolo nell’universo sociale di ragazzi e ragazze di ogni età. Il piano nazionale per la scuola digitale da solo non basta: deve essere accompagnato da un approccio multi-disciplinare all’insegnamento, che arrivi a coniugare il più possibile la cultura umanistica con quella scientifica. L’obiettivo è far crescere il senso critico almeno nelle nuove generazioni: se appare impossibile, infatti, arginare il flusso di informazioni, bisogna almeno fornire gli strumenti per interpretarle. Ed evitare così l’effetto branco, che porta ad accogliere solo le notizie che confermano le proprie convinzioni.

Ma tocca pure al mondo del giornalismo fare un passo in avanti: dopo il tramonto della “mediazione a priori” c’è da recuperare autorevolezza, che si costruisce nel tempo e la concede l’interlocutore, non si può imporre dall’alto.  Bisogna quindi distinguersi dai distributori di spazzatura con lavori sempre più rigorosi, sia nel linguaggio che nel metodo.

Quella contro le fake news è prima di tutto una battaglia culturale. Non a caso nei Paesi in cui l’indice di fiducia nei confronti delle istituzioni e della stampa è più alto il fenomeno appare sotto controllo. In pratica, bisogna allontanarsi dai pregiudizi (cognitivi e non) e uscire dai recinti d’odio post-ideologico, che tanti spazi occupano oggi nelle nostre società. Ce la faremo?

Antonio Montanaro

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Un mio commento sul primo giorno di scuola uscito oggi sul Corriere Fiorentino

trolls2A sei anni, come dice uno dei personaggi di Trolls (il film d’animazione che mia figlia vede e rivede in questo periodo), la vita è tutta «cupcake e arcobaleni». Giusto allora che la scuola, nell’accogliere questi frugoletti al debutto con banchi e lavagne, non faccia sentire troppo il distacco. Eppure nell’assistere alla cerimonia (eh sì, il termine giusto è proprio cerimonia) del primo giorno di scuola non ho potuto fare a meno di pensare alla mia maestra delle elementari, Giuseppina D’Ischia: camice nero, sguardo affettivo ma severo. Non ero lì per caso, accompagnavo una emozionata seienne in grembiule blu. E riflettevo: chissà se la maestra D’Ischia si sarebbe colorata anche lei di un puntino rosso la fronte per dare il benvenuto ai nuovi alunni; chissà se anche lei si sarebbe presentata alla classe mutuando linguaggio e gestualità da «Gipo» (il giullare delle trasmissioni di Rai Yo Yo). Vero, stiamo parlando di un’era geologica fa. Sono passati quarant’anni dalla mia prima elementare: non è rimasto (quasi) nulla di quel mondo. E  io, che allora guardavo Supergulp in tv, ora mi ritrovo a scaricare sull’iPad sofisticatissimi cartoni animati da guardare con mia figlia. Bene, dunque, i maestri che sperimentano nuovi metodi didattici, al passo con i veloci mutamenti delle nostre società. Da genitore, però, mi aspetto anche che la scuola mantenga, senza indugi, quel ruolo istituzionale troppo spesso negato o, addirittura, dimenticato, anche da chi ci lavora. Dove c’è istruzione non c’è discriminazione, dove c’è attenzione per le esigenze dei bambini non c’è omologazione, dove la scuola viene «abitata» non ci sono pericoli per la democrazia. Come papà e mamme, come maestri, dirigenti scolastici, sindaci dovremmo sempre tenerlo presente. Soprattutto in un’epoca  in cui l’isolamento narcisista (davanti a una tastiera, ma non solo) sembra minare alla base i rapporti umani. Proprio per questo la scuola andrebbe vissuta come un’esperienza collettiva, in cui ognuno abbia ben presente il ruolo che ricopre, senza confusioni e invasioni di campo. Certo, le aule non possono essere campane di vetro:  anche lì, si spera, i nostri figli  saranno allenati a interpretare il mondo. Un mondo fatto però, oltre che di «cupcake e arcobaleni»,  anche di sguardi affettivi e severi di una maestra D’Ischia. È chiedere troppo?

Una mia intervista allo psichiatra Martino Riggio uscita oggi sul Corriere Fiorentino sull’ennesimo caso di bambino morto in auto e “annullato” da un genitore…

«La domanda da cui partire è: perché dopo aver lasciato il figlioletto in macchina queste mamme o questi padri vanno a lavorare, hanno un’ottima memoria lavorativa e sociale, e l’unica lacuna mnestica è proprio il figlio?». Martino Riggio, psichiatra e psicoterapeuta, si è formato alla scuola dell’Analisi collettiva di Massimo Fagioli. Per dare una spiegazione all’ennesimo tragico abbandono in auto di un bambino — mercoledì mattina a Castelfranco di Sopra (Arezzo) e tante altre volte in passato (a Vada, Piacenza, Vicenza) — parte dall’uso delle parole: «Parlare di dimenticanza è fuorviante. Si può dimenticare un pacco, un ombrello, una borsa, ma non un neonato. La dimenticanza è rivolta alla realtà materiale, qui ci troviamo di fronte all’annullamento della realtà psichica dell’altro».
Allora cosa è successo nella mente della madre della piccola Tamara?
«Il punto è capire cosa è successo prima di quella mattina. Non ho mai visitato la signora e non posso dare risposte certe, ma si deve prendere seriamente in considerazione la possibilità di una malattia che, probabilmente, non si era manifestata fino a quel momento in modo eclatante e vistoso».
Sta parlando della cosiddetta amnesia dissociativa, già presa in considerazione negli anni scorsi per casi simili?
«No, anche evocare l’amnesia dissociativa è fuori luogo: sono disturbi che in genere compaiono in concomitanza di un evento altamente stressante e colpiscono, per esempio, quelle persone che durante o subito dopo un bombardamento si trovavano a camminare tra le macerie non ricordandosi più il loro nome e la strada di casa. Se il disturbo è così grave però appare improbabile che nel corso di un’intera mattinata non se ne accorga nessuno. E poi se c’è un disturbo della memoria è impossibile che si focalizzi solo ed esclusivamente su di una persona, in questo caso il bambino».
Dov’è, quindi, la causa?
«In un rapporto dove la realtà umana del bambino viene annullata. Per poter capire bisogna partire da un concetto molto caro a noi psichiatri: l’affettività. L’affettività è quella dimensione complessa di interesse, di movimento verso l’altro essere umano con cui creare un rapporto. Di contro si può ricavare cosa sia l’anaffettività che è spesso uno dei sintomi più gravi di alcune malattie psichiatriche. L’anaffettività è il non avere alcun interesse per l’altro, nessun movimento. L’altro non sarebbe un essere umano. O meglio, razionalmente si può anche riconoscere che lo è. Ma non è come me. Se parliamo di un bimbo molto piccolo, non parla, non capisce, non si esprime, spesso dorme. Allora non è razionale, logico. Insomma non è come me».
Sta dicendo che la chiave è il rapporto genitore-figlio?
«Tra un adulto e un bambino molto piccolo c’è la stessa possibilità di stabilire e fare un rapporto reale che tra due adulti. Cambia solo il modo, la maniera, ma il rapporto che possiamo stabilire è reale. L’anaffettività invece porta a non percepire l’altro come un possibile, reale, partner di rapporto. Si perde di vista cos’è un essere umano e anche un bambino di pochi mesi lo è. In un contesto di malattia di questo genere la possibilità, non di amnesia, ma di realizzare la pulsione di annullamento teorizzata da Fagioli oramai 47 anni fa è altissima. Con l’annullamento si perde anche quel minimo di relazione che c’era prima col bambino, che quindi non viene più visto. E questo può portare a non considerare più la sua presenza in auto, come se lui lì non ci fosse mai stato».
Ci può fare qualche altro esempio di annullamento?
«Rimanendo nella dinamica genitore-figlio, la sottovalutazione di un eccessivo dimagrimento o di tagli che compaiono su braccia, gambe o più semplicemente dell’abbandono scolastico, che sta raggiungendo percentuali altissime. Il non vedere la realtà dell’altro è annullamento».
Ma può capitare a tutti? Qualche giorno fa la madre di Castelfranco di Sopra ha linkato su Facebook un articolo su quanto sia stressante unire maternità e lavoro…
«No, succede solo a chi sta veramente male. Lo stress, le tante situazioni di pressione con cui deve convivere tutti i giorni qualsiasi giovane genitore, soprattutto una mamma, amplificano il disagio ma non possono esserne la causa, che va ricercata altrove».
Come si può uscire dallo choc di perdere una figlia così?
«La possibilità di cura c’è per tutti: alla nascita siamo tutti sani, ci ammaliamo nei rapporti con gli altri. Bisogna curare senza colpevolizzare quella persona che all’improvviso ha palesato in modo drammatico ciò che era latente e lavorare sul recupero dell’affettività».

Antonio Montanaro

Un articolo uscito sul Corriere Fiorentino di oggi

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Salvini, Mian e Ceccardi

Ama ripetere: «La felicità non è di sinistra, ma quasi…». E per entrare nel favoloso mondo di Maurizio Mian bisogna allacciarsi le cinture e partire proprio da quel «quasi». Perché l’eccentrico imprenditore pisano, 61 anni il 25 marzo, nella sua vita è stato e continua a essere uno, nessuno, centomila.
Soprattutto in politica: quasi radicale (nel 2006 è stato candidato al Comune di Pisa con la «Rosa nel pugno» e pare che Marco Pannella, prima di rassegnarsi alla sua incostanza, lo adorasse); quasi piddino e bersaniano quando nel 2012 sborsando circa 7 milioni diventa socio di maggioranza de l’Unità («Volevo lanciare attraverso il giornale il mio progetto di felicità, ma il partito mi ha trattato come un bancomat», si è sfogato qualche mese dopo il fallimento dell’operazione e del giornale); quasi grillino dopo aver comprato all’asta su eBay per 10.150 euro il Piaggio Mp3 nero con cui Alessandro Di Battista — nome di battaglia Dibba — ha girato l’Italia in estate («Cosa vedo di buono nel M5S? Per ora restiamo a questa iniziativa. Mi sembra bello dare una mano, vediamo che succede. Sono uno che fa esplorazioni. Per lo meno con 10 mila euro loro mi hanno dato una moto. Dall’Unità con una cifra mille volte superiore mi hanno lasciato solo delusioni», ha detto al Tirreno); infine quasi leghista, perché ieri mattina è partito di buon ora da Cascina insieme alla sindaca Susanna Ceccardi per incontrare il leader del Carroccio Matteo Salvini (è stata lei stessa a pubblicare una foto di tutti e tre su Facebook con un’emblematica didascalia: «Dallo scooter… alla ruspa»).
Si sono fermati a chiacchierare per più di un’ora a Palazzo Marino. Di cosa? «Di tutto, dalla politica nazionale a quella locale — spiega la giovane pasionaria anti unioni civili — era da tempo che me lo chiedeva. Avevamo programmato da qualche mese questo viaggio, voleva conoscere il Trump italiano». Anche quasi trumpista, dunque. E non poteva essere altrimenti, visto che Maurizio Mian è diventato Maurizio Mian soprattutto per una bufala messa in giro da lui stesso: quella del cane Gunther, il suo pastore tedesco, che avrebbe ereditato da una teutonica nobildonna la cifra di 150 milioni di marchi. L’eredità vera invece è quella che gli ha lasciato la madre, Gabriella Gentili, a capo di un impero farmaceutico con svariati brevetti poi venduto agli americani della Merck Sharp & Dohme.
In quel mare di quattrini Mian naviga a gonfie vele con la Gunther Corporation, società che ha interessi in vari settori, tra cui gli immobili di lusso e la produzione di programmi televisivi. A Miami ha una villa che è stata di Madonna, dove si rifugia quando non ne può più dell’umidità che arriva dall’Arno. L’unico punto fermo della sua vita bohémien è il calcio, il Pisa nello specifico. Sua mamma andava in curva con gli ultras e lui nel 2002 se l’è comprato il club nerazzurro, per poi rivenderlo tre anni dopo. Quest’estate ha fiutato l’aria frizzantina che tirava sotto la Torre per lanciarsi nel ciclone dei possibili acquirenti della società. Per qualche giorno è stato perfino quasi presidente. Poi si è tirato fuori. Farà così anche con i trumpisti Grillo e Salvini?

Antonio Montanaro

Una chiacchierata con Maurizio de Giovanni, su Napoli, il noir in tv , i Bastardi di Pizzofalcone, uscita oggi sul Corriere Fiorentino.

i-bastardi-di-pizzofalcone-678x381Una serie tv, I bastardi di Pizzofalcone, che ha fatto il pieno di ascolti su Rai 1 in prima serata (record sia lunedì che martedì con oltre il 25 per cento di share); una seconda, con protagonista il commissario Ricciardi, altro suo personaggio cult, in preparazione sempre per Rai 1 («siamo in fase di ultimazione della sceneggiatura ed è già stata scelta la regia»). Per Maurizio de Giovanni, scrittore napoletano dalla cui penna continuano a uscire noir di successo, è un momento d’oro. «Non me lo aspettavo — spiega — accolgo i dati sugli ascolti dei “Bastardi” in maniera divertita e turistica. D’altronde sono solo l’autore dei libri e ho firmato con Silvia Napolitano e Francesca Panzarella la sceneggiatura. Chiaramente questa serie tv ha una veste, una forza, una capacità indotta da moltissime professionalità, prima di tutto quella degli attori. Io sono soltanto un frammentino di un lavoro straordinario».  De Giovanni sabato sarà a Firenze per un doppio appuntamento: alla Ibs (ore 17.30) per la presentazione di Pane per i bastardi di Pizzofalcone, l’ultimo libro della serie pubblicata da Einaudi, e al teatro Puccini (ore 21) per uno spettacolo con l’attrice Gaia Nanni e il chitarrista Giuseppe Scarpato («leggeremo alcuni miei racconti, con un originale accompagnamento musicale»). Noir e televisione, un binomio che sembra attrarre sempre di più il pubblico italiano: «Sì — conferma lo scrittore — il nostro romanzo nero è in un momento di congiuntura favorevole. Gli esempi sono tanti: dal maestro Camilleri a Carlo Lucarelli, da Antonio Manzini, a Marco Malvaldi. E ancora Giancarlo De Cataldo, Massimo Carlotto: l’elenco è lunghissimo». Ma quanto incide la spinta della tv? «Credo che la letteratura dia alla televisione più di quanto riceva. Certo, le serie, i film, il cinema influenzano e danno un impulso interessante, ma la letteratura è la letteratura: c’era prima e ci sarà anche dopo. La televisione più si rivolge ai testi letterari più aumenta in qualità e in originalità».  Al centro dei romanzi di de Giovanni c’è sempre Napoli, la città dove vive e scrive. Per la precisione due Napoli, quella di oggi nei Bastardi di Pizzofalcone e quella degli anni Trenta nella saga del commissario Ricciardi. «Le differenze riguardano essenzialmente la scomparsa della comunità del vicolo, la vita in strada che c’era agli inizi del Novecento non c’è adesso. La Napoli attuale è una città che corre, quella degli anni Trenta una città che camminava. La differenza fondamentale sta nella velocità, che influenza comportamenti e modi di fare». Certo, alcuni tratti resistono: «Il napoletano continua ad avere un atteggiamento di sorridente malinconia. Siamo sostanzialmente sudamericani, penso che Napoli sia la città più sudamericana fuori dal Sudamerica. Abbiamo questa nostalgia che ci fa sorridere, anche nei momenti più tristi. Ma che nel contempo ci dà modo di versare qualche lacrima anche quando siamo particolarmente allegri. Ed è il motivo per cui gli scrittori, i cantanti, gli artisti, i teatranti napoletani si riconoscono rispetto agli altri».  Eppure dai Bastardi viene fuori una realtà completamente diversa da quella descritta da Roberto Saviano in Gomorra, altra fiction di successo. C’è contrapposizione? «Il punto è che io ma anche Saviano non raccontiamo Napoli, raccontiamo storie ambientate a Napoli. Raccontare Napoli è materia di sociologi, di politici, io non so Roberto che tipo di messaggio abbia in mente di mandare o se ce l’abbia in mente. Io racconto solo storie e lo faccio ambientandole a Napoli, una metropoli con tre milioni e mezzo di abitanti, che si estende su un’area enorme, all’interno della quale c’è tutto e il contrario di tutto. I miei romanzi si svolgono nel mondo della borghesia, nei salotti bene, ma ci sono anche i vicoli. È una realtà, sono aspetti della stessa città, non ci vedo una contrapposizione». Eppure, Saviano e il sindaco De Magistris litigano proprio su questo punto: «Capisco poco la loro polemica — sottolinea — dicono cose entrambe vere e compatibili. Perché bisogna negare che esistano aree di Napoli che sono preda di un certo tipo di criminalità e danno vita a eventi drammatici? Ma allo stesso tempo non penso sia possibile negare una forza di riscatto, una vis culturale, che non c’è stata negli anni precedenti. Penso che in questo momento Napoli, insieme con Torino, sia la città più vivace dal punto di vista culturale. Adesso è così, tra cinque anni chissà. Vorrei però che ci fosse un minimo di serenità di giudizio». Un’ultima battuta su un altro tema che sta dividendo Napoli: lo spettacolo con Maradona al San Carlo, in programma lunedì prossimo. «È un’operazione di assoluta coerenza — risponde de Giovanni — non è uno scandalo, penso che un tempio della cultura come il San Carlo debba raccogliere i valori della comunità. E questi valori possono essere di vario tipo: non capisco perché l’erogatore di maggior gioia nel corso della storia recente della città debba essere escluso da quello che è un luogo di gioia e di felicità».

Antonio Montanaro

Un mio pezzo sul Corriere Fiorentino di sabato 17 dicembre

2046670-enrico_rossiNostro, sinistra, sociale, politica: così parlò Ernico Rossi, il governatore della Toscana che punta a soffiare la guida del Pd a Matteo Renzi. E il duello si gioca anche, soprattutto, sul linguaggio.  «L’elemento più evidente — sottolinea Alessandro Lenci, docente del Laboratorio di linguistica computazionale dell’Università di Pisa, davanti all’appello che Rossi ha indirizzato a Fabrizio Barca giovedì scorso — è l’utilizzo del “nostro”. Il nostro elettorato, il nostro partito, la nostra gente: appare chiaro il tentativo di recuperare la pluralità in risposta all’egocentrismo e al narcisismo renziano». Ma c’è anche la ricomparsa della parola «politica». «E — continua Lenci — non è una cosa banale, perché negli ultimi tempi questo termine ha acquisito un’accezione negativa. Invece Rossi lo ripropone con il significato di linea, programma. C’è un cambio notevole da questo punto di vista».
Certo, quello del governatore è un testo rivolto a un collega di partito, a un «pari», anche se parla a lui perché altri intendano. «Poi c’è l’utilizzo di termini come lavacro, arso: un linguaggio difficile, non immediato. Cita il “peronismo culturale”, un riferimento giusto, dotto, colto. Ma quanti, anche tra i militanti del Pd, sono in grado di coglierlo?». E qui veniamo al punto più controverso della comunicazione di Rossi: «Va bene andare oltre Renzi — fa notare il linguista dell’Università di Pisa — ma non bisogna fare l’errore di tornare indietro, di voler parlare come Berlinguer. Siamo tutti nostalgici di quel tipo di politica fatta con i piedi per terra, però quanto sarà comprensibile oggi? La società è cambiata, la nostra lingua è cambiata».
Vero, siamo pieni delle metafore bersaniane e dei luoghi comuni renziani, «però attenzione a non rinchiudersi in un linguaggio che puzza di casta». Dovrebbe esserci, dunque, una terza via, anche nell’uso delle parole: «Bisogna superare l’equivoco relativo all’idea che il contenuto semplice sia necessariamente un contenuto vuoto: non è vero. Superare l’auto-narrazione renziana, la sua auto-mitologia non significa per forza ritornare a un linguaggio politichese. Perché c’è il rischio che per distaccarsi dal contenuto semplice ti distacchi anche da una modalità di comunicazione che è quella dei nostri tempi e con cui bisogna per forza di cose fare i conti». La sfida allora sta principalmente nel recuperare l’elettore che, per un motivo o per l’altro, si è allontanato dal Pd. «E chi lo ha fatto — conclude Lenci — non è quello che usa abitualmente il termine “lavacro”. Si sono allontanate le classi che hanno una scolarizzazione medio bassa, che usano un linguaggio semplice, immediato. Se si vuole ritornare a una politica della segreteria, il pericolo è che nasca una proposta con un linguaggio già vecchio e che non riesca a toccare la pancia e la testa degli elettori».

Antonio Montanaro