Un mio pezzetto uscito oggi sul Corriere Fiorentino
Petaloso fa rima con fantasioso, giocoso. Due aggettivi-pilastro in quell’universo bambinesco fatto di colori e spontaneità, che spesso noi adulti, condizionati dalla lente opaca della nostalgia, tendiamo a sottovalutare. La lettera del piccolo Matteo da Ferrara — come fa giustamente notare il presidente dell’Accademia della Crusca, Claudio Marazzini — ha ridato per un attimo il sorriso a una comunità (quella italiana) impegnata in queste ore a litigare su anglicismi (uno per tutti: stepchild adoption) e su diritti più o meno estendibili (inclusi quelli degli stessi minori). In poche ore l’hashtag #petaloso ha invaso i nostri profili Facebook e Twitter, rilanciato anche dal presidente del Consiglio Renzi, da ministri, linguisti, intellettuali, scrittori. Un applauso corale (no, standing ovation proprio no) a una parola che accende l’immaginazione di tutti: nonni, genitori, figli. Petaloso entrerà per social-acclamazione nella prima nuova edizione utile di un vocabolario, ne siamo sicuri. Ma Matteo (il piccolo Matteo) ci pone anche una questione importante, politica (nel senso più ampio del termine): ma noi i bambini li ascoltiamo davvero? Le nostre città, per esempio, sono pensate per le loro esigenze? E le nostre leggi sono scritte in una lingua comprensibile a tutti, anche a loro? Perché è giusto e legittimo emozionarsi per la lettera di un bambino, ma sarebbe ancora più bello se anche in Parlamento, nelle piazze, nei Consigli comunali, potessero trovare casa parole più «petalose».
Antonio Montanaro