Io non so quanto siano attendibili le minacce di morte a Roberto Saviano. Non sta a me saperlo. Io so solo che sono allergico alla retorica. So solo che se uno scrittore, giovane, coraggioso, dovesse veramente essere vittima di un attentato, le colpe ricadrebbero su chi in questi anni ne ha fatto un eroe. Per nascondere le proprie negligenze e la propria incapacità ad affrontare l’attacco (anche culturale) lanciato dalla criminalità organizzata. Ho l’impressione che Saviano serva soprattutto alla classe dirigente campana per lavarsi la coscienza: “Tanto c’è lui”. Basta un attestato di solidarietà un mese sì e l’altro pure per dare l’impressione all’opinione pubblica che una risposta allo strapotere dei clan ci sia. No, non funziona così. Mentre tutt’Italia – dieci anni fa, o giù di lì – applaudiva il rinascimento napoletano, fatto di piazze simbolo liberate dalle auto, Scampia diventava il crocevia internazionale del traffico di droga. Tutti sapevano, ma non si poteva dire: “Non disturbare il manovratore”. Ma allora qualcuno ci provò lo stesso (basta andare a scorrere le collezioni dei quotidiani locali di quegli anni). Oggi un romanzo che, in buona parte, raccoglie vicende già raccontate da articoli di giornale e da atti giudiziari, diventa un caso. Non solo editoriale (magari fosse solo questo), ma mediatico, politico. No, c’è qualcosa che non funziona. C’è un corto circuito insopportabile. Che danneggia non solo la società meridionale, ma anche lo stesso Saviano. Purtroppo. A sostegno di questo mio sfogo notturno, metto qui sotto un articolo pubblicato ieri sul Roma, quotidiano napoletano.
di ANDREA MANZI (dal Roma)
Dispiace che Roberto Saviano tolga le tende e vada un po’ all’estero per rientrare nella sua età e gustarsi amori e birre che anche un ventottenne cresciuto troppo in fretta merita. La vita pericolosa da lui affrontata con spirito di “servizio” ci avrebbe fatto prevedere sviluppi diversi, pur in presenza del rischio di un attentato peraltro vago, frettolosamente amplificato ed ora finanche smentito.
Quando l’intolleranza fascista si abbatté sui fratelli Rosselli – anch’essi giovani e senza nemmeno il tempo di rimpiangere amori e sbronze – cominciò proprio allora la loro lotta. Il regime, con decreto, aveva chiuso il Circolo di cultura di Firenze. I due intellettuali scrivevano perché, come Saviano, credevano nel valore delle parole. Scrivevano, ma soprattutto studiavano, e non ebbero editori o giornali di supporto, né scorte o rifugi blindati. Avevano il desiderio della libertà, punto: erano soli ma non lo dissero mai. Le loro idee pesavano come il piombo: gliele aveva inculcate Gaetano Salvemini, e loro due le coltivarono nelle “veglie quotidiane” di cui parlò Piero Calamandrei. Quella libertà era dolce e dannata, era la religione laica che sfociava nelle scelte intrepide di Ernesto Rossi, Pietro Jahier, Enrico Finzi. “Non mollare” si chiamò il primo giornale clandestino antifascista fondato dai Rosselli, e quel foglio nacque in un clima precario ma fervido. Per Carlo e Nello finì male, furono uccisi in Francia: le loro idee continuano a non mollare, vissero nel movimento Giustizia e Libertà, nel Partito d’Azione, nel socialismo liberale e sono iscritte nella moderna aspirazione ad un mondo giusto. Abbiamo ricordato la loro storia nel tentativo di associarla, per estensione analogica, alla attuale resistenza contro la camorra. Diversi i piani, lontani gli stili: comune però, a distanza di decenni, appare la “funzione sociale” della cultura e dell’informazione, che devono farsi carico delle bassezze della realtà. Esse non sono separabili dai processi sociali, non avrebbe senso l’intellettuale in una serra. Altra cosa, però, è l’attendibilità della letteratura e del giornalismo ai fini della ricostruzione dei fenomeni criminali: qui le perplessità sono molteplici e citiamo per tutte quella del professor Amato Lamberti, fondatore dell’Osservatorio sulla camorra: «Se si utilizza Saviano per conoscere la camorra, si potrà consultare il romanziere Stephen King per lo studio socio-economico degli Stati Uniti». Sarebbe inoltre oziosa ogni discussione sul rapporto tra letteratura e verità, perché va da sé che tra un sociologo, un inquirente e un romanziere c’è lo stesso abisso che separa una denuncia da una condanna, il giorno dalla notte. Purtroppo, se la retorica deforma anche verità inoppugnabili come questa qualche ragione ci sarà. Fa riflettere la richiesta, per lo scrittore prossimo al volontario esilio, di una casa-simbolo («municipio o palazzo reale» le sole dimore degne), dove egli «possa venire quando lo desidera». L’ha formulata un quotidiano e la sottoscriviamo integralmente, regalità del sito compresa. Il problema è che la emergenza campana, che fa da sfondo alla richiesta, è stata ricostruita con le parole di un particolarissimo opinion leader, che ammonisce sulla «fase molto delicata della battaglia per affermare i valori della legalità, della democrazia e della convivenza civile». Non si tratta di Aldo Masullo, Maurizio Valenzi, Antonio Guarino, di un redivivo Giancarlo Siani, ma l’eticista di turno è Antonio Bassolino da Afragola, di cui vengono ricordate recenti minacce di morte nel tentativo di un accostamento a Saviano. Passi la scelta maestosa per la dimora dello scrittore blindato, ma su Bassolino… Il governatore è in coma politico profondo alla corte del Cavaliere e merita il rispetto che la tradizione cavalleresca riserva ai vinti. Durante la sua gestione, Casalesi & C. – con i rifiuti tossici e non solo – hanno costruito fortune imperiali. Solo una citazione improvvida, si dirà. E se invece il simbolo Saviano, così com’è, diventa indispensabile non tanto per rifondazioni etiche nelle quali nessuno più crede quanto per rianimare l’agonizzante cultura napoletana da un po’ di tempo senza principe? Appare legittimo il sospetto che il giovane e celebrato autore di Gomorra serva ai cosiddetti intellettuali sia per allestire una produttiva retorica della legalità (è un formidabile palcoscenico) sia come collante per riannodare sfilacciate trame politiche di riferimento. L’anticamorra, inutile negarlo, con Roberto Saviano acquista visibilità, incrocia consensi, diventa apparentemente sociale. Il salto di qualità del recupero di Bassolino, in quest’ottica, appare tuttavia difficile e goffo. Per quanto città magica, a Napoli non c’è un Ricoeur che nella sua vita riuscì a far coabitare Aristotele e Heidegger, Kant e Levi Strauss e magari avrebbe potuto fare un tentativo con Saviano e Bassolino. Senza l’autore di Gomorra gran parte della cultura campana, probabilmente, non avrebbe più spazi e sarebbe costretta a confessare decenni di attività di corte, il divorzio dalla città reale, il livello non eccelso delle attuali produzioni. Accade così che, per l’angoscia di perdere il futuro, si spacci la mafiosità per chiave di conoscenza (e non è cosa vera) e le battaglie di libertà vengano rinchiuse nell’angusto dualismo omertà-denuncia, con il proposito di riproporre il passato prossimo. È solo un’ipotesi, ma bisogna vigilare: la legalità sì, ma la decenza anche.
Forse l’ottica corretta potrebbe essere quella di vedere quale danno Saviano o altri hanno arrecato alla camorra ovvero quale eco gli scritti hanno avuto per riportare all’attenzione del paese quella metastasi dimenticata e sotterranea. Saviano ha questo merito che gli costa. Magari questo gli andrebbe riconosciuto e lo differenzia da troppi vermi che son la collusione, il fiancheggiamento politico, giornalistico ed imprenditoriale si arricchiscono di danaro sporco.
Metterla in politica come fa Manzi è paccottiglia di bassa lotta politica.
Non posso fare a meno di ricordare in tema Maria Rosaria Capacchione.
luigi nonallineato
[…] primo è tratto da un pezzo scritto da Nicki Vendola, governatore della Puglia, l’altro da Andrea Manzi, editorialista del Roma, attraverso il blog e l’introduzione di Antonio […]
Antonio, mi dispiace che per dire una cosa giusta, giustissima – Saviano usato come foglia di fico dalla classe dirigente campana (e nazionale no?) tu pubblichi un articolo che per prima cosa dà sostanzialmente a Saviano del chiagnazzaro (non come quei bei fratelli Rosselli, che si sono fatti ammazzare senza tante storie e soprattutto studiando, non dando interviste né bevendo birre né pretendendo di vivere come giovani!). Anche se ci ha messo del suo, Saviano non credo proprio che si aspettasse tutto questo. Altrimenti finiamo col ricadere nel “se l’è cercata”.
Miic, non penso che Andrea Manzi volesse dare del “chiagnazzaro” a Saviano… E’ vero, non se l’aspettava, e io non ho nulla contro di lui. Anzi. Quello che mi fa incazzare è che – come ha sottolineato anche il capo della polizia Manganelli – per combattere la camorra non servono solo simboli, ma impegno quotidiano. Dalle istituzioni soprattutto. Quello che non c’è stato, e ancora non c’è. E Saviano diventa, purtroppo, un totem, dietro cui nascondersi…
E intanto, su un libro che raccoglie atti giudiziari,articoli già pubblicati, qualcuno ci scrive pure dei post e,magati,altri articoli. Questo è giornalismo “creativo”, fratello dell’attuale finanza “creativa”. Quando uno non ha idee, allora presume di poter scrivere belle cose sulle altrui idee di successo,ma criticandole. Insomma, la nostra è una società che si può ancora permettere tanti muschi culturali. Tante sovrapposizioni inutili, come quella di Manzi. Troppi finanzieri e troppi giornalisti. Poche idee da spartirsi in troppi. Io sono solo un lettore e non mi sovrappongo a nessuno. Durerà ancora molto questa situazione, oppure il crack della finanza creativa ci impoverirà al punto che almeno la metà dei giornalisti dovrà affidarsi alle braccia,piuttosto che alle mani? Dovesse accadere, a limite esiterebbe ancora Saviano,ma non i suoi muschi.
Anche questa è democrazia: discutere, criticare – con elementi di ragionamento – cose che scrivono altri. O no? Il muschio – anche in natura – è una forma di vita